La direttiva allertamento: vent’anni di storia

Ricorrono i vent’anni della cosiddetta Direttiva allertamento, ossia la direttiva che ha stabilito organizzazione e funzioni che garantiscano le attività di previsione e monitoraggio di potenziali eventi quali alluvioni, frane e temporali, al fine di supportare, anche attraverso il preannuncio, gli attori del sistema di protezione civile nella predisposizione di misure di riduzione del rischio. In occasione di questo anniversario, ripercorriamo alcuni elementi chiave della Direttiva

Il 27 febbraio 2004, quasi vent’anni fa, venivano per la prima volta definiti i cosiddetti “indirizzi operativi per la gestione organizzativa e funzionale del sistema di allertamento nazionale distribuito, statale e regionale, per il rischio idrogeologico ed idraulico ai fini di protezione civile”. In altre parole, venivano per la prima volta individuate le azioni, le procedure e gli strumenti, nonché l’organizzazione, per fronteggiare alcuni rischi (nello specifico quelli idrogeologici e idraulici, come frane e alluvioni), distinguendo due fasi: quella dedicata alla previsione dell’evento e quella inerente al monitoraggio della situazione in atto. L’insieme di queste indicazioni è oggi nota come “Direttiva allertamento”, fortemente voluta e portata avanti dal professor Bernardo de Bernardinis, all’epoca direttore dell’ufficio Previsione, valutazione prevenzione e mitigazione dei rischi naturali del Dipartimento della Protezione Civile, del quale divenne poco dopo vice-capo per l’area tecnico-operativa.

All’avvicinarsi dell’anniversario della Direttiva allertamento, proviamo a ripercorrerne gli aspetti principali e i momenti chiave della sua evoluzione negli anni.

La nascita della Direttiva allertamento e i suoi principi di base

La Direttiva nasce per fronteggiare i numerosi eventi catastrofici che hanno colpito il territorio nazionale e in particolare in seguito alla catastrofe che colpì i comuni campani di Sarno, Siano, Quindici e San Felice a Cancello, avvenuta nel maggio 1998. In quell’occasione, precipitazioni di elevata intensità portarono a una serie di colate rapide di fango che provocarono la morte 161 persone. Un evento di tale portata rese evidente e non più rinviabile la necessità di costruire un sistema adeguato a far fronte a questo tipo di fenomeni, identificando le aree soggette al rischio, anticipando – nei limiti delle conoscenze e della predicibilità dei fenomeni stessi – la possibilità che vi si verifichi un disastro, monitorando le situazioni di pericolo e mettendo in atto tutte le possibili azioni di mitigazione e contrasto per tutelare la popolazione.
«La Direttiva ha dettagliato l’organizzazione e i compiti dei centri funzionali decentrati (regionali e provinciali) del Sistema di protezione civile definendo le zone di vigilanza, omogenee dal punto di vista meteo-climatico, e zone di allertamento, omogenee dal punto di vista dei potenziali effetti al suolo sulle quali effettuare le valutazioni di rischio», spiega Antonio Gioia, referente dell’ambito Pianificazione e Procedure di Fondazione CIMA. «Ma il vero elemento innovativo è la suddivisione in fasi dell’intero processo di “early warning” distinguendo, seppur tenendone presente la correlazione, la fase dedicata alla previsione e quella focalizzata su monitoraggio e sorveglianza».

Secondo questo schema, dunque, tutto parte dalle previsioni meteorologiche, che individuano la possibile precipitazione nelle zone di vigilanza. Sulla base di tale previsione, i settori e gli uffici dei centri funzionali competenti per l’idrologia compiono una valutazione di criticità, che a sua volta può portare all’emanazione di un’allerta e alla sua diffusione sul territorio da parte della protezione civile regionale. «È proprio l’emanazione dell’allerta a innescare le azioni di monitoraggio e sorveglianza che contraddistinguono la Direttiva: è da questo momento, infatti, che gli enti competenti sono chiamati a monitorare la situazione e definire lo scenario in atto – ossia a verificare se e come ciò che sta accadendo è conforme alla previsione iniziale. E, naturalmente, l’allerta diramata dal sistema regionale deve poi attivare le adeguate azioni di contrasto contenuto nel piano di protezione civile e che le varie strutture operative devono attuare, coordinandosi per fronteggiare l’evento con quanto più anticipo possibile allo scopo di ridurne gli impatti», continua Gioia.

Verso l’autonomia regionale e l’omogenizzazione

Il percorso di costruzione del sistema dei centri funzionali decentrati non è stato breve e, nelle more dell’attivazione delle strutture regionali, le attività previste dalla Direttiva sono state svolte – tranne poche eccezioni – dal Centro Funzionale Centrale del Dipartimento Nazionale della Protezione Civile. In effetti, la costituzione di strutture idonee, efficaci ed efficienti a livello regionale, in grado di operare in concorso con le strutture centrali, ha richiesto circa dieci anni e solo alla fine del 2014 tutte le Regioni e le Province autonome sono riuscite ad avere un proprio Centro funzionale con le necessarie competenze idrologiche e informatiche –mentre a tutt’oggi alcune di esse non sono ancora autonome per quanto concerne la previsione meteorologica.

Ma, fino a pochi anni fa, vi era uno scoglio ancora più significativo da superare, dovuto alla mancanza di un glossario e di un lessico condiviso tra i diversi enti regionali: ciascun centro funzionale, di fatto, adottava terminologie, codici e livelli differenti per riferirsi alle allerte emanate. In particolare, alcuni enti adottavano il codice colore (spesso con colori e significati differenti), altri ne utilizzavano uno numerico (allerta 1, allerta 2 e così via, aventi, anche in questo caso, significato diverso, talora opposto) altri ancora preferivano una definizione qualitativa (per esempio, “allerta severa”): un ostacolo non da poco se si pensa alla necessaria comunicazione da fornire alla cittadinanza, magari residente in aree di confine tra Regioni che usavano linguaggi così difformi, oppure ai turisti, o ancora all’eventuale scambio di informazioni tra una Regione e l’altra.

«Questo problema è stato affrontato con l’importante integrazione alla Direttiva allertamento costituita dalle indicazioni operative emanate nel 2016. Queste, anche in riferimento a uno standard internazionale, definiscono in modo univoco la comunicazione delle criticità sul territorio», spiega Gioia. Nascono così le allerte come le conosciamo ora, contraddistinte dal codice colore giallo, arancione e rosso.
Le indicazioni operative del 2016 aggiungono un terzo scenario di valutazione delle criticità. Se, infatti, la Direttiva originale era focalizzata sul rischio idrogeologico e idraulico, nel 2016 si aggiunge anche la criticità idrogeologica dovuta a eventi temporaleschi. Che, vale la pena ricordarlo in questo contesto, ha due soli tipi di allerta, quella gialla e quella arancione: il colore rosso, infatti, è riferito a eventi estesi dal punto di vista geografico e che perdurano nel tempo, due caratteristiche che non appartengono ai temporali, che si caratterizzano per essere eventi ad elevata intensità di precipitazione, spazialmente localizzati e di breve durata.

C’è ancora qualcos’altro, oltre alla questione “forma e colore”. Nelle indicazioni operative del 2016, infatti, si stabiliscono anche le fasi di attivazione del sistema, che prima erano delegate a livello regionale. «In sostanza, sono state prodotte delle linee guida per supportare l’attivazione minima dei sistemi di protezione civile, dette fasi operative. In altre parole, ciascun livello territoriale (regionale, provinciale e comunale) può e deve adottare, anche nel preannuncio dell’evento, delle azioni minime per i diversi livelli di allerta. Non vi è però automatismo tra il livello di allerta e la corrispondente fase operativa», spiega Gioia. Può sembrare controintuitivo, ma in realtà questa strategia rende il sistema più flessibile, perché di fatto prevede una valutazione del codice colore per l’allerta che è strettamente tecnico-scientifica, associata a una risposta che deve tenere in considerazione anche le informazioni provenienti dalla sorveglianza sul territorio, la capacità di risposta, la presenza di condizioni di vulnerabilità preesistenti che possono influenzare l’impatto dell’evento, eventuali fattori contingenti che possono aumentare l’esposizione al rischio (ad es., eventi sportivi, culturali, sociali in grado di incrementare significativamente il numero di persone potenzialmente a rischio) e così via. Questa flessibilità del sistema è il fattore chiave per modulare al meglio le azioni da mettere in campo in un determinato territorio per fronteggiare il possibile evento e i suoi impatti.

«Tutto questo percorso, dalla nascita della Direttiva alla sua piena applicazione, fino agli ultimi aggiornamenti che ne hanno consentito l’omogenizzazione a livello nazionale, ha un obiettivo di base: garantire un’attivazione graduale e coordinata del sistema di protezione civile che, partendo dalla previsione, arrivi poi fino alla cittadinanza, in modo chiaro, comprensibile e univoco, consentendo – note le potenziali condizioni di pericolosità e rischio – a ciascun individuo di adottare consapevolmente le misure di auto-protezione», conclude Gioia. «Con lo scopo ultimo, naturalmente, di tutelare la popolazione dai rischi idrometeorologici, in base agli elementi conoscitivi a disposizione del sistema che, giova ricordarlo, portano sempre con sé un grado di incertezza».

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